Il mio percorso di fotografo è iniziato davanti ad un atlante geografico.
Ho trascorso 25 anni a guardare fuori da una finestra.
Un succedersi di meravigliosi tramonti, mattini nebbiosi e cieli tempestosi.
Ma non potevo uscire dalla mia stanza, non potevo testimoniare al mondo le emozioni che il paesaggio mi suscitava.
Era come se sprecassi il mio tempo ed una parte della mia vita.
Ma riavvolgiamo il nastro.
Fine anni '70. Non credo avessi più di 6 anni. Il mio libro preferito era un Atlante Geografico con un deserto in copertina.
La mia fantasia di bambino viaggiava tra i luoghi virtuali delle carte geografiche. Montagne, pianure, mari, laghi e città con i loro nomi, talvolta impronunciabili, come Reykjavík o Kangchenjunga.
Nel 1981, all’età di 9 anni, la mia prima esperienza sul campo.
L’immaginazione lasciò il campo alla realtà: una vacanza sulle Dolomiti!
I passi Pordoi, Sella e Gardena non erano più un numero ed un simbolo su una cartina geografica e le Tre Cime di Lavaredo, ora imponenti davanti ai miei occhi, si mostravano in tutta la loro magnificenza.
L’anno seguente, la notte prima di partire per la Val d’Aosta, non riuscii a chiudere occhio tanta era l’emozione.
La combinazione tra le nevi perenni e le pareti granitiche del Monte Bianco e del Gran Paradiso rimase impressa nella mia memoria. Stampata nella mia immaginazione.
Come non far sbiadire il ricordo? Come fissare queste sensazioni in modo indelebile? Ma soprattutto, come trasmettere il mio entusiasmo e la mia reazione emotiva a quelli che vedono il mondo come me?
Le parole e la scrittura non sono sufficienti, hanno dei limiti. Raccontano molto bene “cosa fanno le cose, ma non come sono le cose”1. La descrizione di una realtà non si esaurisce con una narrazione.
Le parole difettano dell’impronta visiva, della testimonianza visibile che cattura una porzione di realtà attraverso un’immagine.
Le immagini aggiungono altre informazioni che le parole non riescono a dare.
Immagini e scrittura sono quindi complementari. Per ottenere un "surrogato di una realtà", servono entrambe. (Un "surrogato" perché fotografia e storia non sono l'equivalente della realtà, perché il punto di vista del fotografo/narratore è ineliminabile)
Ed ecco palesarsi di fronte a me la necessità di fotografare.
Fotografare per condividere.
Fotografare per un pubblico che desidera e sogna come me, per percorrere insieme una strada comune e provare a dare una direzione.
Fotografare, attraverso la mia visione, per suscitare in chi guarda le mie immagini, una connessione con un sentimento, un senso di appartenenza per chi vede il mondo in un certo modo, oppure evocando un ricordo o un’esperienza.
Sfortunatamente però, la distanza tra la teoria e la pratica è notevole.
Di fronte ad un paesaggio mozzafiato, chiedevo di utilizzare la Ferrania a pellicola di mio padre che, a malincuore, mi concedeva qualche scatto.
A malincuore perché la pellicola era costosa e serviva soprattutto per immortalare le vacanze della famiglia. Una fotografia senza persone era quasi inconcepibile a quei tempi.
E le fotografie che all’età di 9 anni portai a casa da quell’esperienza non furono granché.
Realizzai che avrei dovuto percorrere una lunga strada per fare di me un fotografo capace di convogliare emozioni.
Puoi avere il talento, ma lo devi coltivare. Quello che conta è la pratica, gli errori da cui imparare e le abilità conseguite sul campo.
Ora facciamo un salto in avanti di circa 15 anni: 1995.
Termino gli studi e comincio a lavorare come commerciale presso un’azienda della grande distribuzione. Avevo bisogno di uno stipendio.
Il primo giorno che sono entrato a lavoro ho giurato a me stesso che da quel momento in poi avrei lottato per uscire da lì. Avevo fatto un percorso di studi sbagliato, fare quel lavoro non era quello che volevo. Non sono nato per stare chiuso in una stanza e per svolgere una mansione che si basa su una ricetta già pronta, su uno schema di conformità e fedeltà al sistema.
Purtroppo allo stesso tempo non ho mai avuto il coraggio di saltare il burrone ad occhi chiusi ed ho sempre cercato rassicurazioni per compiere la transizione in maniera indolore.
Per questo motivo ho trascorso 25 anni a fissare fuori dalla finestra del mio ufficio.
Ma in questi 25 anni, nel tempo che mi rimaneva, ho speso tutte le mie energie nel processo. Dal primo giorno.
Ho acquistato le prime fotocamere digitali e poi un’Hasselblad medio formato a pellicola ed ho iniziato a sperimentare:
libri,
maestri,
osservazioni,
visite a mostre,
errori,
correzioni,
tentativi,
e poi di nuovo errori
e correzioni.
La pratica continuava incessante, le abilità crescevano, e soprattutto alcune persone, quelle affini alla visione comune del mondo, quelle con cui vorrei condividere il viaggio, iniziavano ad individuare nelle mie fotografie un sentimento, un’emozione, un messaggio.
Era il segnale che il mio gioco infinito, iniziava ad intersecarsi con quello del pubblico a cui mi rivolgevo.
Per un paio di anni (2010 e 2011) ho provato anche a misurarmi con autorità esterne, attraverso i concorsi fotografici. Le cose sono andate molto bene, ben oltre le mie aspettative. Ma in fin dei conti questa esperienza non mi ha lasciato niente per la mia pratica, se non due diplomi da appendere.
Cercavo altro. Non mi interessava il risultato. Volevo solo poter giocare, partecipare alla crescita delle mie abilità di fotografo, per compiere la mia missione che è quella di diffondere emozioni, sentimenti, idee ed evocare ricordi ed esperienze.
I 25 anni a fissare fuori dalla finestra sono terminati il 31 dicembre 2019.
Non sono diventato un fotografo dal 1° gennaio 2020, lo sono sempre stato da quando ho preso in mano per la prima volta la Ferrania a pellicola di mio padre.
Così come lo siete tutti voi quando premete il pulsante di scatto della vostra fotocamera o smartphone: “Fotografare fa di voi dei fotografi”.
La differenza sostanziale è che oggi ho molto più tempo per esplorare i luoghi, interpretare le stagioni e scegliere le condizioni ambientali e di luce più consone al mio sguardo. Ho più tempo per esercitare la mia pratica.
Non ho più la frustrazione delle occasioni perse e mi posso concentrare su desideri e sogni di chi vede il mondo come lo vedo io e provare ad esercitare su di loro un cambiamento, una crescita personale.
Osservare fotografie e libri dei maestri a cui devo tutto come Michael Kenna, Josef Sudek, Edward Weston, Hiroshi Sugimoto, Ansel Adams, Mario Giacomelli e Franco Fontana, ha cambiato il mio modo di osservare il paesaggio naturale ed umano.
Mi hanno emozionato, mi hanno spinto ad approfondire un tema, mi hanno fatto crescere, hanno arricchito la mia persona.
Per terminare, un auspicio: spero che qualche mia fotografia occupi un piccolo angolo del vostro cuore.
È questo il motivo per cui scatto ogni giorno.
1 Simona Guerra – Fotografare letteralmente, pag 31-35 - 2021 ©PiktArt
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